ll ritmo con cui stiamo perdendo torbiere, stagni, foci, lagune e saline è tre volte maggiore rispetto a quello che scandisce la scomparsa delle foreste. A dichiararlo è l’ONU nel report “Unprecedented”, che fotografa una velocità nel declino della biodiversità mai raggiunta prima. E la Giornata Internazionale delle Zone Umide che cade il 2 febbraio, è l’occasione per ricordare che dal 1700 al 2000 il Pianeta ha perso più dell’’85% di questi ecosistemi. Oggi il Belpaese ne conta 57, più 9 in approvazione, per un’estensione pari a 73.982 ettari. Tra le minacce, la conversione in terreni agricoli, l’inquinamento industriale e l’immissione di specie aliene.
“L’Italia è il paese che ha registrato le perdite maggiori”, spiega Cesare Avesani Zaborra, biologo e direttore generale del Parco Natura Viva di Bussolengo. “In questo lasso di tempo ha perso il 66% delle sue zone umide, soprattutto litoranee. Ambienti acquatici spesso poco considerati ma ricchi di vegetazione, fondamentali per la sosta e la riproduzione di moltissime specie di uccelli. Come la garzetta, la gallinella d’acqua, la folaga, il germano reale e l’alzavola. Non solo si tratta di bacini che custodiscono nutrienti come potassio e azoto, ma anche di elementi fondamentali per la mitigazione del dissesto idrogeologico”. Sono 15 le Regioni italiane che ospitano ambienti acquatici riconosciuti dalla Convenzione di Ramsar nel proprio territorio, concentrati in particolare in Toscana, Emilia Romagna, Sicilia e Sardegna. Proprio in terra nuragica l’ultimo ingresso, con la Foce del Rio Posada nel febbraio dello scorso anno. “Una testimonianza di cosa è possibile sperare salvaguardando le nostre zone umide, ce la offre il ritorno progressivo dei fenicotteri rosa in Italia nelle ultime tre decadi. Una specie che si è riaffacciata sulle nostre coste nei primi anni ’90 e che oggi, è frequente avvistare proprio nelle regioni con un’alta densità di zone umide”, conclude Avesani Zaborra. Ma la strada è lunga e molte altre specie aspettano di poter tornare.
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